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Miscellanea

La guerra delle valute e del petrolio: l’altro conflitto che può piegare Putin

Le vendite di idrocarburi sono l'unica via d'uscita per difendere il rublo dal collasso. Mosca puntava sugli introiti del greggio (non sanzionato dall'Ue) offerto a sconto, ma non aveva previsto le "auto-sanzioni" che si sta infliggendo il mercato

Prima dell’invasione dell’Ucraina il rublo russo veniva scambiato a 75 contro il dollaro, oggi ha toccato il nuovo minimo storico scambiando a 122 contro la valuta americana. Una svalutazione frutto delle pesanti sanzioni comminate da Unione Europea, Regno Unito e Stati Uniti nei confronti di Mosca. Il rublo “ha perso in una settimana il 25 per cento del suo valore, gli investitori stanno perdendo fiducia nell’economia russa e nel settore finanziario. Questo è il prezzo che il Cremlino deve pagare per la sua aggressione e per l’enorme violazione del diritto internazionale”, ha esultato il vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis. I pacchetti di misure coercitive e punitive adottate dal G7 e dell’Ue per far “collassare l’economia russa” hanno preso di mira oligarchi, società, individui, traffici commerciali, banche e persino le riserve valutarie, il forziere con cui Vladimir Putin, conscio delle prevedibili sanzioni, aveva previsto di foraggiare la sua campagna militare in Ucraina e difendere l’economia domestica. Gli effetti si sono subito fatti sentire: molti bancomat sono senza soldi e persino i pagamenti con carta non sono più possibili in alcuni casi. Il crollo del valore del rublo sta anche portando a crescenti timori tra i russi che i loro risparmi possano essere spazzati via. Ma le sanzioni hanno risparmiato – per ora – tutto il settore energetico da cui i Paesi occidentali, e in particolare l’Europa, sono ancora dipendenti.

“L’economia russa sta ora affrontando una seria pressione, e un duro colpo, direi”, ha ammesso il portavoce del Cremlino Peskov. Ma poi ha aggiunto: “C’è un margine di sicurezza, c’è un potenziale, e ci sono piani. Un lavoro instancabile è in corso. Resteremo in piedi. La Russia ha ancora le riserve per ammortizzare l’economia”. Messaggi per rassicurare investitori e cittadini dopo alcune misure particolarmente pesanti per il settore finanziario russo come l’esclusione di sette banche dal circuito per i pagamenti internazionali Swift e, soprattutto, il congelamento di circa metà dei 630 miliardi di dollari in riserve valutarie accumulate da Mosca quando già premeditava l’invasione. L’Ue ha tuttavia deciso di lasciare fuori Gazprombank e Sberbank dalla lista delle banche estromesse dallo Swift in quanto sono i principali istituti per i pagamenti relativi all’energia in Europa. Eppure è proprio sui mercati dell’energia e dei cambi valutari che si sta combattendo l’altro conflitto, parallelo a quello militare e come quello militare dall’esito ancora incerto, da cui dipendono le sorti dell’avanzata russa prima che cadano la capitale Kiev e le principali città del Paese nelle mani dei russi.

A detta degli analisti, il blocco delle riserve è la vera sanzione nucleare contro la Russia. Quando la moneta si deprezza, infatti, come sta avvenendo in queste ore con il rublo sotto attacco finanziario, la Banca centrale può vendere sul mercato dei cambi le riserve in valuta estera (euro e dollari, in sostanza) per sostenere il corso della propria di cui il mercato vuole invece disfarsi, temendo il crollo del suo valore. Ma ci sono strade alternative per aggirare il blocco. E passano dall’energia. La Russia è il terzo esportatore al mondo di petrolio e rifornisce l’Europa per il 40% dei suoi consumi di gas. Nel 2021 la Russia ha registrato un ampio avanzo delle partite correnti (cioè il valore delle sue esportazioni è stato superiore a quello delle importazioni) di 120 miliardi di dollari, da ricondurre agli oltre 250 miliardi di dollari di export di gas e petrolio. Dalla vendita delle due materie prime, e in particolare del greggio, la Russia conta di ricavarci valuta estera da impiegare nel mercato dei cambi a sostegno del rublo. Ecco perché come contromisura alle sanzioni occidentali la Banca centrale di Mosca ha imposto l’obbligo alle aziende russe esportatrici di convertire in rubli entro tre giorni l’80% degli introiti riscossi dal 1 gennaio di quest’anno per assicurare “una stabile fornitura di valuta estera nel mercato domestico dei cambi allo scopo di venire incontro ai bisogni degli importatori e delle famiglie”. In risposta, nel nuovo pacchetto di sanzioni adottato dall’Ue c’è anche il divieto di esportare euro in Russia. La misura, pubblicata in Gazzetta europea dopo l’ok finale del Consiglio Ue, prevede il divieto “di vendere, trasferire, fornire o esportare euro a qualsiasi persona giuridica o fisica in Russia, inclusi governo e banca centrale o comunque per il loro utilizzo in Russia”.

Quello che forse Mosca non aveva previsto sono le auto-sanzioni che si stanno infliggendo i colossi petroliferi, diverse società e trader del mercato del greggio. Bp ha deciso di dismettere la partecipazione del 19,75% in Rosneft e la norvegese Equinor di cessare la partnership con Rosneft, rescindendo anche l’accordo per le esplorazioni in Siberia. Lascia il Paese anche la danese Orsted, controllata dallo Stato al 50,1%, mentre i francesi di TotalEnergies, non apporteranno più capitali a nuovi progetti in Russia e Shell uscirà dalla joint venture nel Gnl con Gazprom, così come Eni uscirà da quella, sempre con Gazprom, per il gasdotto Blue Stream.

Il petrolio per ora non è stato colpito direttamente dalle sanzioni, per la Casa Bianca le sanzioni contro le esportazioni russe sono “ancora sul tavolo”. Prima di prendere un’altra decisione dirompente che avrebbe pesanti ricadute sul commercio globale e sull’inflazione ci sono una serie di fattori da prendere in considerazione. Lo scoppio del conflitto ha già innescato la corsa del prezzo del barile: il Wti statunitense è stato scambiato a 110,95 dollari, in rialzo del 7,29% dopo essere salito a 112,51, un record dal 2013; il Brent del Mare del Nord è aumentato del 6,50% dopo aver toccato i 113,94 dollari al barile, il massimo dal 2014. I timori per la corsa del greggio tuttavia non ha cambiato i piani dell’Opec+ che ha praticamente ignorato le richieste dei Paesi consumatori di ampliare la capacità produttiva: l’alleanza di 23 nazioni produttrici di petrolio guidata da Arabia Saudita e che include la Russia, ha riconfermato per aprile il piano di aumenti graduali della produzione pari a solo 400.000 barili al giorno. In via preventiva, martedì tutti i 31 paesi membri dell’Agenzia Internazionale dell’Energia hanno deciso di rilasciare 60 milioni di barili di petrolio dalle loro riserve strategiche “per inviare un forte messaggio ai mercati del petrolio” che non ci sarà “nessuna carenza di forniture” a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Gli Stati Uniti hanno quindi annunciato il rilascio di trenta milioni di barili e oggi anche la Germania ha annunciato il rilascio di 434mila tonnellate di greggio.

I timori di una carenza di petrolio che può alimentare ancora di più l’inflazione già in rialzo prima dell’invasione dell’Ucraina non ha scosso i produttori Opec+ che, secondo alcuni analisti, non sono nelle condizioni di aumentare la propria capacità. Un assist indiretto alla Russia di Putin che così può sperare di piazzare il suo greggio da cui ottenere risorse per pagare la sua guerra e ridurre l’impatto delle sanzioni. E per questo che da diversi giorni il petrolio degli Urali viene offerto con sconti record ai trader energetici. Martedì al greggio russo è stato praticato uno sconto di ben 18 dollari al barile rispetto al Brent, che fa da benchmark globale, per essere più concorrenziale. L’imprevisto però era dietro l’angolo: a causa dell’esclusione delle banche russe dal circuito Swift e delle altre sanzioni verso gli istituti di credito, i commercianti di greggio si stanno tenendo alla larga dal petrolio di Mosca. Per il prezzo degli Urali a prezzi stracciati mancano letteralemente le offerte perché da un lato si teme di non riuscire a riscuontere i crediti russi dall’altro la paura è di vedere infangata la propria reputazione aziendale nel fare affari con Putin, assurto ad appestato del mondo.

Le raffinerie dell’Europa nordoccidentale Neste e Preem si stanno ritirando dagli acquisti di greggio russo. La finlandese Neste ha affermato di aver sostituito principalmente il greggio russo con altri, a causa “della situazione attuale e dell’incertezza del mercato”. La raffineria svedese Preem ha dichiarato di aver “messo in pausa tutti gli ordini in entrata di greggio russo, in attesa di sanzioni”. Il produttore russo Surgutneftegaz per tre volte in quattro giorni non è riuscita a piazzare le sue offerte. Il colosso del trading di petrolio Trafigura ha tentato di cedere un carico con un prezzo inferiore di 18 dollari a quello sul mercato ma senza ricevere risposte.

In altre parole produttori e raffinatori si stanno ben guardando dall’acquistare il petrolio russo, anche se offerto a sconti record sui prezzi di un mercato sotto forte stress. Secondo le stime di Bloomberg Mosca già ora non riesce a piazzare due milioni di barili al giorno su una produzione quotidiana di circa otto milioni (cinque di greggio e tre di raffinati). Anche le compagnie di navigazione stanno avendo un ruolo. Contro la Russia infatti è stato applicato una sorta di embargo soft con la decisione di alcuni dei principali player del trasporto cargo di sopprimere tutti gli scali da e per la Russia. La compagnia statale russa Sovcomflot, che ha la più grande flotta di petroliere al mondo di media dimensioni (le cosiddette Aframax), viene evitata come la peste, riporta ancora Bloomberg.  Altre importanti compagnie petrolifere e gestori, tra cui Maersk Tankers e Torm, hanno annunciato che, per ora, non stanno assumendo nuovi contratti di spedizione petrolifera russa. Si tratta di un problema molto serio per l’export di petrolio di Mosca che si muove per i due terzi via mare ma anche per alcune raffinerie europee. “Circa il 70% del commercio di petrolio russo è congelato” afferma la società di consulenza Energy Aspect “la gran parte delle grandi società non tratta il greggio di Mosca e solo poche raffinerie in Europa e società di trading sono ancora sul mercato”. Dalle vendite di greggio e petrolio la Russia poteva sperare di ottenere – secondo le stime del professore associato della Columbia Law School Lev Menand – circa 1,5 miliardi di dollari equivalenti al giorno da convertire in rubli e dare fiato alla sua valuta. Una cifra esorbitante se si pensa che prima del congelamento dei suoi asset, giovedì scorso la Banca centrale russa aveva dato fondo in un solo giorno a un miliardo di riserve in valuta estera, e una cifra di poco inferiore il giorno successivo, venerdì.

Le vendite di idrocarburi sono al momento l’unica via d’uscita di Mosca per difendere il rublo da una caduta vertiginosa che presto potrebbe trasformarsi in un vero collasso, visto il congelamento delle riserve. Molti osservano che senza colpire il mercato energetico, l’Occidente rischia indirettamente di fornire risorse a Mosca per portare comunque avanti la guerra in Ucraina. Per ora il comportamento di molti operatori, per paura di subire ripercussioni dai loro traffici con un Paese appestato, sembra stia riuscendo a rallentare i piani del Cremlino. Ma si tratta di auto-sanzioni, più che di sanzioni dirette. Le misure sull’export russo di petrolio tuttavia restano ancora sul tavolo, ha rimarcato ancora oggi il presidente americano Joe Biden, consapevole che se Putin non si ferma, le sanzioni dovranno inasprirsi fino a paralizzare la principale fonte di reddito dell’economia russa, ma anche le forniture di materie prime indispensabili al tessuto economico e industriale europeo. Altrimenti l’Occidente si troverebbe, una volta finite la guerra e le sanzioni, in una situazione a dir poco paradossale: aver continuato a foraggiare la campagna militare di Putin lasciando allo stesso tempo intatte tutte le sue riserve strategiche di valuta estera. Sarebbe una doppia vittoria per il leader russo.

 

FONTE CLAUDIO PAUDICE huffingtonpost.it

Fonte
huffingtonpost.it
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