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Isolata e reietta sui mercati, la Russia dà primi segnali di cedimento

Fa fatica anche a vendere petrolio. Le agenzie di rating abbassano le loro valutazioni. Mosca rischia anche i fondi del Fondo monetario

Se Vladimir Putin può tirare un sospiro di sollievo dalla vendita di un carico di barili di greggio alla Shell non è perché ha fatto un affare. La compagnia inglese ha comprato quei barili a circa 28,45 dollari in meno rispetto al Brent, ma comunque li ha acquistati e soprattutto ha garantito che continuerà a farlo. Tutt’altro che scontato nonostante la Russia sia il terzo esportatore mondiale di petrolio. Sono giorni, infatti, che nessuno vuole i barili Ural. Non sono finiti dentro le sanzioni decise dall’Europa e dagli Stati Uniti, ma gli operatori petroliferi se ne tengono alla larga. Il prezzo in caduta dice che la domanda è un po’ fiacca e che a prevalere sono i timori di restare incastrati nei circuiti bancari, ma anche di non riuscire a trovare le navi per trasportare il petrolio, ancora di non incassare i crediti russi. Una diffidenza che arriva fino alla scelta di non associare il proprio business a una figura controversa, quella del presidente russo, che ha trascinato un Paese in guerra, ma anche verso il default.

Per Putin vendere il petrolio, così come il gas, è una necessità che si è fatta obbligo perché l’export degli idrocarburi, da sempre l’attività economica più redditizia, è rimasto l’unico punto di forza per provare a contenere un accerchiamento che si fa di giorno in giorno più stringente. È l’effetto delle sanzioni internazionali, con in testa il congelamento di circa metà dei 630 miliardi di dollari in riserve valutarie, che sta travolgendo l’economia russa, unito a dinamiche che aggravano la situazione, come la grande fuga delle multinazionali estere, ma anche la minaccia dell’Occidente di agire al contrario e cioè bloccare le importazioni russe di auto, aerei e beni alimentari. E c’è una ragione se la Lukoil, il secondo colosso petrolifero russo, ha deciso di distaccarsi dalla linea belligerante, chiedendo di fermare la guerra in Ucraina: il titolo è sceso da 118 dollari a 30 centesimi. È l’immagine del prezzo che gli oligarchi stanno pagando per il conflitto, insieme al rublo che si è svalutato e alla Borsa che resterà chiusa fino all’otto marzo per evitare il tracollo. Dall’ultima volta che la Borsa di Mosca è stata aperta, i i titoli russi quotati a Londra hanno azzerato il proprio valore, prima di essere sospesi.

C’è la Russia dei ricchi, che sono colpiti anche dalle sanzioni sui patrimoni personali, è c’è la Russia della gente comune, quella che va ai bancomat e fa fatica a trovare cash, del rublo che oggi è risalito dai minimi storici, ma che resta debolissimo, aprendo la grande questione della sicurezza dei risparmi. Non solo. La svalutazione della moneta nazionale sta facendo schizzare i prezzi e se il confronto impietoso con il dollaro dovesse andare avanti ancora per molto allora la portata dell’inflazione aumenterà ancora di più. Molti beni costeranno di più e la spirale tirerà dentro anche il potere d’acquisto, che andrà riducendosi, deprimendo così i consumi. A tutta questa catena che è già in movimento, JP Morgan ha già dato un titolo: una profonda recessione. Le stime sul Pil parlano di un crollo del 7% quest’anno, ma al di là della caduta del prodotto interno lordo è l’intero scenario che si sta facendo rapidamente più scivoloso. Le previsioni dicono che potrebbe essere un default peggiore di quello del 1998. Il capitombolo di 22 anni fa si generò per altre questioni, il debito pubblico esplose, i russi impazzivano per il dollaro, i tassi schizzarono oltre il 100%, ma tutti questi fattori erano inseriti in un clima di non ostilità da parte dell’Occidente. Oggi invece, con la guerra voluta da Putin, non ci sono margini per un aiuto. La situazione è ribaltata dato che le sanzioni, anche le nuove che sono in arrivo, puntano all’effetto opposto e cioè a mandare l’economia russa in tilt, creando un elemento di dissuasione per Putin, oltre che provare ad attivare la leva del dissenso interno.

Ma torniamo all’accerchiamento, che è principalmente di natura finanziaria. Dopo l’esclusione di alcune banche dal circuito dei pagamenti Swift e le altre sanzioni già previste, il nuovo pacchetto allo studio promette di incidere ancora di più. A fianco ci sono alcune misure che sono già più avanti e che possono fare molto male alla Russia, come la valutazione che stanno facendo gli Stati Uniti e l’Europa sull’opportunità di tagliare Mosca fuori dai finanziamenti del Fondo monetario internazionale. In ballo ci sono i 17 miliardi di dollari dell’allocazione che la Russia ha ricevuto l’anno scorso all’interno dei cosiddetti diritti speciali di prelievo: sono risorse potenziali, che possono attivarsi, e quindi essere spesi, solo se la Russia troverà un partner pronto ad accettarli e farsi dare così valuta in cambio.

Il default può farsi più vicino con una nuova stretta indotta da nuove sanzioni, ma il dato ancora più importante è che ci sono già le prime avvisaglie. Se il rischio è dato al 67% è perché i credit-default swap (Cds) in dollari sul debito russo a cinque anni sono volati a un valore altissimo. A spiegare le tensioni a Huffpost è Davide Tentori, ricercatore dell’Osservatorio geo-economia dell’Ispi: “Le cedole in scadenza potrebbero non essere ripagate. Il debito, rispetto al Pil, è basso, ma non conta tanto lo stock quanto la difficoltà delle istituzioni russe di pagare i propri crediti al momento della scadenza”. Lo scenario è quello del default tecnico che, dice sempre Tentori, “non sarebbe la rovina definitiva”, ma questa possibilità “sta già ponendo la Russia in una situazione di reietto sui mercati finanziari”. Qui subentra l’accerchiamento messo in luce dalle agenzie di rating. Fitch e Moody’s hanno tagliato il rating di Mosca, che ora rientra nell’elenco di quei Paesi che possono avere problemi a rimborsare il debito. Moody’s ha abbassato la sua valutazione sul debito di lungo termine da Baa3 a B3, indicando di mantenere alta l’attenzione sulle sanzioni occidentali, mentre Fitch ha abbassato il rating di default a lungo termine in valuta estera della Russia da “BBB” a “B”, con outlook negativo, ritenendo che la severità delle sanzioni ha aumentato le minacce alla stabilità macrofinanziaria, oltre al fatto che potrebbe minare la volontà di mantenere gli impegni sul debito. Tutto questo in una frase: il debito è a un passo dal livello junk (spazzatura).

E Standard & Poor’s ha portato il suo giudizio sull’affidabilità di Mosca a CCC-, tre livelli sotto Moody’s e quattro sotto alla valutazione di Fitch. Soprattutto l’agenzia di rating ha sottolineato come la contromossa russa di bloccare i flussi finanziari verso l’estero può mettere a rischio il rimborso e il pagamento degli interessi dei bond russi agli investitori stranieri. È l’altra faccia del default, intesa come generatore di ripercussioni che possono innestarsi a livello globale. Quella più grande per l’Occidente, e soprattutto per l’Europa, si chiama inflazione dato che il prezzo del gas è arrivato sopra i 200 euro per megawattora e altri prezzi, quelli dei cereali e del petrolio, si scaricheranno sempre sui cittadini, al supermercato come dal benzinaio. Per gli investitori esteri è un bel guaio dato che secondo le ultime stime detengono titoli russi in valuta nazionale pari a circa 30 miliardi di dollari e bond sovrani per circa 20 miliardi di euro. Fino ad ora le cedole sono state pagate regolarmente, ma ora Mosca potrebbe decidere di aumentare la portata del blocco dei rimborsi. In questo modo, però, la crisi si farebbe ancora più forte. Per rompere questo accerchiamento bisogna confidare nel gas. Gazprom ha fatto sapere che le forniture che arrivano in Europa attraverso i tubi che passano in Ucraina sono regolari. Conviene a Putin perché così incassa e tanto visti i prezzi attuali, ma la chiusura dei rubinetti potrebbe essere la mossa decisiva per piegare la raffica di sanzioni che arrivano dall’Occidente. Farlo, però, toglierebbe ulteriore liquidità al Paese. Una buona fetta delle riserve valutarie sono congelate, la Banca centrale ha immesso liquidità aggiuntiva per tentare di proteggere l’economia, ma l’iniezione è una mossa emergenziale che non può essere replicata all’infinito. Poi c’è il petrolio, ma bisognerà capire se l’acquisto della Shell è un’inversione di tendenza o se i trader continueranno ad allontanarsi dai barili russi. Anche, se non soprattutto da questo, dipenderà la resistenza economica di Mosca.

FONTEGIUSEPPE COLOMBO

huffingtonpost.it

Fonte
huffingtonpost.it
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