Alla fine nessuna sorpresa dell’ultima ora dal voto in Iran: con oltre il 62% delle preferenze secondo dati ancora parziali, ma a lunga distanza dagli altri tre candidati in lizza, il nuovo presidente è l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, capo della magistratura negli ultimi due anni e noto in particolare per il suo ruolo attivo nell’esecuzione di massa di migliaia di dissidenti chiusi nelle carceri iraniane nel 1988. L’apatia e la disillusione dell’elettorato moderato-riformista hanno vinto, sebbene i dati ufficiali sull’affluenza alle urne (vicina al 50%) sembrino smentire la previsione di molti che anticipavano un maggiore astensionismo, e con un esso una delegittimazione del sistema della Repubblica Islamica.
Ma l’esito del voto non è solo una questione di politica interna, riguarda tutti noi: l’Europa e il Medio Oriente come gli Stati Uniti, il principale degli attori esterni che lo hanno più o meno direttamente condizionato. La sintesi di quello che d’ora in poi ci si potrà aspettare la fa da Teheran il Financial Times: la vittoria di Raisi significa che la linea dura conservatrice, che si è già conquistata il Parlamento lo scorso anno e controlla gli apparati giudiziario e militari, è ora la più potente dal 2013, primo degli otto anni di presidenza del moderato Hassan Rouhani. I riformisti, “che favoriscono un maggiore impegno con l’Occidente, sono stati spinti al margini”. E se è vero che Raisi ha assicurato che proseguiranno i negoziati per il ritorno degli Usa e dello stesso Iran al rispetto dell’accordo sul nucleare del 2015, abbandonato da Trump nel 2018, gli ultraconservatori “vorranno negoziare alle loro condizioni”, in vista della fine del mandato di Rouhani nel prossimo agosto. L’elezione di Raisi insomma, secondo il quotidiano britannico che a Teheran ha la brava corrispondente Najmeh Borzorgmehr, “rischia di complicare” i colloqui di Vienna da cui pure erano giunte ieri notizie positive. Inoltre, tale vittoria implica che Teheran sarà ancora meno propensa a ridurre il suo supporto alle milizie filo-iraniane nella regione e a fermare l’espansione del suo programma missilistico.
Più del programma nucleare iraniano infatti, come già si è scritto in questo blog, sono questi i due pilastri delle politiche di difesa di Teheran e i due veri grandi temi al centro del suo confronto con le altre potenze regionali alleate degli Usa (da Israele ai Paesi arabi del Golfo Persico), che premono sul presidente Usa Joe Biden per una linea dura con la Repubblica Islamica. Insomma, la lunga stagione di tensioni in Medio Oriente potrebbe essere destinata a durare ancora a lungo.
Proviamo invece a immaginare come avrebbe potuto essere la vita della maggioranza degli iraniani, e quindi anche l’esito del voto di ieri, se l’amministrazione Trump non avesse deciso di lasciare, o meglio ancora tradire, quell’accordo sul nucleare che avrebbe dovuto favorire interazioni economiche e politiche più distese tra l’Iran e l’Occidente. Pensiamo all’inflazione passata in tre anni dal 7% al 40% con cui hanno dovuto convivere, alla caduta verticale del valore del rial rispetto al dollaro e all’euro, al tasso ufficiale del 22% della disoccupazione giovanile. Pensiamo a come sono peggiorate le loro possibilità economiche e le prospettive dei loro figli, le possibilità dei giovani di realizzare i loro progetti anche studiando all’estero o semplicemente interagendo con quell’Occidente che per tutti loro è così familiare. E pensiamo con quante difficoltà è partita la lotta al Covid-19 non solo sul piano sanitario, ma anche su quello delle iniezioni di risorse pubbliche a sostegno dell’economia garantite che l’Iran non ha potuto avere proprio a causa delle sanzioni Usa, tutte ancora in vigore, nonché del mancato accoglimento della richiesta di un prestito di 5 miliardi di dollari del Fondo monetario internazionale bloccata proprio da Washington. La concomitanza delle sanzioni, della pandemia ma anche delle mancanze del governo nell’affrontare la crisi hanno lasciato il 44% della popolazione al di sotto del livello di povertà, ricorda il Washington Post, aggiungendo che il Covid-19 ha portato alla perdita di un milione di posti di lavoro.
Anche se è stato il governo uscente di Hassan Rouhani, agli occhi di molti iraniani, il primo imputato di questo disastro, come aveva ribadito lo stesso Raisi in campagna elettorale: quello che vediamo oggi nel Paese non ha nulla a che fare con le sanzioni, è connesso ad una cattiva amministrazione interno”. Anche se, ha concesso, “le sanzioni hanno creato problemi”. Nei suoi programmi vi era la volontà di relazionarsi con il mondo, aveva aggiunto, assicurando nel contempo “l’influenza dell’Iran nella regione, insieme ad una diplomazia economica attiva”. Tuttavia, non era “logico” a suo avviso legare il progresso economico del Paese all’interazione con il resto del mondo. Insomma, un programma ancora connotato di quegli autarchici elementi di “resistenza” sostenuta dalla Guida Ali Khamenei e che andava in opposta direzione rispetto a quello del candidato moderato Abdolmaser Hemmati, che aveva invece sottolineato la necessità di rapporti economici con altri Paesi avanzati per sostenere, sul piano tecnologico e quello degli investimenti, uno sviluppo dell’Iran all’altezza delle sue vaste risorse naturali e del suo altamente qualificato potenziale umano.
Il governo di Rouhani aveva al contrario puntato le sue carte sulla fiducia negli Usa e nell’Europa – la cui fedeltà all’alleanza atlantica si è ridotta di fatto a sudditanza, di fronte alla postura aggressiva della precedente amministrazione Usa – ma ha perso la sua scommessa. E gli ultraconservatori hanno più che mai gioco facile nel dire che di Washington e dei suoi alleati non ci si può fidare. Mentre a milioni di iraniani non resta ormai che il pessimismo e la disillusione.
FONTE
huffingtonpost.it