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Italia

L’agenda della ricostruzione, secondo Draghi

Addio primule, vaccini a tappeto. Riforme di fisco, P.A., giustizia. Regia dei 210 miliardi del Recovery al Tesoro

Il lungo silenzio di Mario Draghi si rompe alle 10.16. Quando nell’aula del Senato inizia ad illustrare le linee programmatiche di quello che battezza come “il governo del Paese”. Eccola l’agenda. Il perno è il cambio di passo sui vaccini perché “combattere con ogni mezzo la pandemia” – spiega – ”è il principale dovere”. Ma la discontinuità rispetto all’esecutivo guidato da Giuseppe Conte non intacca solo la dimensione della gestione dell’emergenza, ma anche quella della road map dei prossimi anni che passa dal Recovery Fund. Ecco cosa ha detto il presidente del Consiglio. E quali scenari si aprono con le sue parole.

La spinta alla campagna di vaccinazione. Così cambierà il modello Arcuri

La prima priorità per la “Nuova Ricostruzione” è voltare pagina sul piano di vaccinazione. Il passaggio clou: “La nostra prima sfida è, ottenutene le quantità sufficienti, distribuirlo rapidamente ed efficientemente. Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla protezione civile, alle forze armate, ai tanti volontari. Non dobbiamo limitare le vaccinazioni all’interno di luoghi specifici, spesso ancora non pronti: abbiamo il dovere di renderle possibili in tutte le strutture disponibili, pubbliche e private”.

La direzione politica è l’accelerazione. Alle 7 di oggi, secondo quanto riporta il contatore online della struttura commissariale per l’emergenza, sono stati somministrati poco più di 3 milioni di vaccini (3.122.631). Il metodo apre a una revisione profonda del modello Arcuri. La priorità per Draghi non è la testa della macchina (almeno ad oggi), cioè il nome di Arcuri, ma il suo funzionamento. Quindi un ruolo più forte dell’esercito e delle forze armate, ma anche dei volontari. I luoghi “spesso ancora non pronti” rimandano alle primule incompiute di Arcuri, i grandi padiglioni da installare nelle piazze per “fare rinascere l’Italia come un fiore” (il copyright dello slogan è di Arcuri, avallato da Conte). Il nuovo modello di Draghi guarda a una vaccinazione a tappeto. Il modello è quello della Gran Bretagna. La direzione guarda, ancora, al modello Bertolaso, presentato negli scorsi giorni in Lombardia e osteggiato dal ministero della Salute guidato da Roberto Speranza. In questo senso si apre a un coinvolgimento maggiore della Protezione civile. Più operatori e più luoghi dove fare i vaccini. Quindi palestre, fiere, camioncini per strada.

Un altro indizio del cambio di contenuto del piano di vaccinazione lo dà sempre Draghi quando dice che bisogna fare “tesoro dell’esperienza fatta con i tamponi che, dopo un ritardo iniziale, sono stati permessi anche al di fuori della ristretta cerchia di ospedali autorizzati”. Fine della logica esclusiva dell’ospedalizzazione dei vaccini, che si tira dietro intasamenti e ritardi nel sistema delle prenotazioni.

La riforma della sanità che guarda fuori dagli ospedali

A questa visione territoriale, quartiere per quartiere, delle vaccinazioni si accompagna la riforma della sanità. Dice Draghi: “Il punto centrale è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria)”. Queste considerazioni guardano a un’evoluzione del sistema sanitario nazionale ancora largamente incompiuta. Il Ssn è fortemente centralizzato sulle strutture ospedaliere e sulle Asl. La spinta di Draghi guarda alla telemedicina per non intasare i pronto soccorso e più in generale i reparti degli ospedali e all’assistenza domiciliare integrata. Quest’ultima altro non è che la “filiera” che tiene insieme l’Asl, il medico di famiglia e il paziente. Spesso soggetta a problemi di comunicazione e di organizzazione. La scommessa, ora, è renderla più fluida ed efficiente. La base sociale di questo disegno è “rendere finalmente esigibili i livelli essenziali di assistenza”.

La scuola in presenza (anche in estate), lezioni pomeridiane. La formazione dei docenti per spingere gli istituti tecnici 

“Non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà”. Per Draghi la didattica a distanza ha sostanzialmente fallito. Nella prima settimana di febbraio, con un meccanismo quindi a pieno regime, solo il 61,2% degli studenti delle superiori (i numeri li dà lo stesso premier) ne ha usufruito. La direzione è quella di un’intensificazione del ritorno degli studenti nelle aule. Ma anche di un allungamento del calendario scolastico. L’orizzonte, al di là della data precisa, è tenere dentro anche l’estate, quantomeno una parte. Anche con lezioni pomeridiane.

Come la sanità, anche la scuola ha una doppia prospettiva. In quella più larga, Draghi contempla “una transizione culturale a partire dal patrimonio identitario umanistico riconosciuto a livello internazionale”. Nel menù delle materie potrebbero arrivare nuove materie di studio. Ma è sugli istituti tecnici che Draghi mette l’accento. I modelli sono la Germania e la Francia. La stima che motiva la direzione: nel quinquennio 2019-2023 serviranno circa 3 milioni di diplomati di istituti tecnici per il digitale e per l’ambiente. Nel Recovery plan ci sono a disposizione 1,5 miliardi, uno stanziamento superiore di venti volte al finanziamento di un anno normale, pre-pandemia. Qui per Draghi la questione non è economica (considerando che le risorse ci sono), ma di metodo. Va bene calare soldi negli istituti tecnici, ma il personale docente deve essere formato adeguatamente. Il digitale corre, le politiche sull’ambiente si fanno più integrate e molto più evolute rispetto all’ambientalismo tout court degli ultimi dieci anni. Anche la scuola – è il ragionamento del premier – deve tenere il passo. Stessa logica per l’università.

L’alert sui licenziamenti. Il possibile “scambio” con le politiche attive

Draghi non dà indicazioni dettagliate sul blocco dei licenziamenti che scadrà il 31 marzo. Dà però una lettura dell’impatto che avrà lo sblocco: “La diffusione del virus ha comportato gravissime conseguenze anche sul tessuto economico e sociale del nostro Paese. Con rilevanti impatti sull’occupazione, specialmente quella dei giovani e delle donne. Un fenomeno destinato ad aggravarsi quando verrà meno il divieto di licenziamento”. Insomma, il colpo sarà durissimo. In linea con un’economia che tornerà ai livelli pre-pandemia non prima della fine del 2022. I danni sono già tanti. I nuovi poveri, secondo i dati dei centri di ascolto Caritas, sono passati dal 31% al 45 per cento. Quasi una persona su due si rivolge a questi centri per la prima volta. I 444mila posti di lavoro persi, il peso della “disoccupazione selettiva” su giovani e donne. Quasi tutto sui precari. Sugli autonomi se l’ottica è quella della tipologia di lavoro. L’impennata delle disuguaglianze.

Draghi punta tutto sulle politiche attive. Sono quelle che servono per reinserire i disoccupati nel mondo del lavoro. E questo è un primo indizio che spinge a pensare che il blocco dei licenziamenti non sarà prorogato. Quantomeno non per tutte le aziende e quindi per tutti i lavoratori. È qui uno dei punti di maggiore discontinuità rispetto al governo Conte. La logica del vecchio governo è stata quella di blindare il lavoro con il blocco dei licenziamenti per un anno (caso unico in Europa). Il colpo della crisi è stato fortissimo con il lockdown nazionale della scorsa primavera, ma questo schema è stato mantenuto anche dopo che il virus ha contenuto la sua corsa e con l’allentamento delle restrizioni. Le politiche attive sono state declamate da tutti, dai 5 stelle al Pd, ma mai spinte davvero. Anzi. La pandemia non solo non ha costituito un’occasione per potenziare queste politiche, ma ha affossato anche il disegno partito già con il Conte 1, quando le le politiche attive furono riformulate attraverso i navigator e con la gestione dell’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, affidata a Mimmo Parisi.

Draghi prova a tirare fuori le politiche attive da questa secca. Fa un riferimento esplicito a un cambio di passo. Qui le prospettive sono due. La prima è ridisegnare l’assegno di riallocazione. Quindi cambiare il sistema dei voucher per i disoccupati, in linea con una nuova prospettiva delle azioni che devono aiutare i lavoratori senza impiego a cercarne uno. La seconda è rafforzare le dotazioni di personale dei centri per l’impiego. Il premier non nomina i navigator. Anzi parla di più personale “in accordo con le Regioni”. Una differenza sostanziale, che guarda al sistema delle politiche attive precedente all’innesto dei navigator. È anche una questione di tempi. Le politiche attive devono partire subito: verranno tirate fuori dal Recovery plan e anticipate.

La prospettiva più larga guarda a un possibile scambio. Politiche attive che funzionano e una riforma degli ammortizzatori sociali per allargare e potenziare il periodo non lavorativo possono controbilanciare lo stop al blocco dei licenziamenti.

La selettività negli aiuti alle imprese

Il passaggio chiave è questo: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche”. La logica della selettività. Gli aiuti alle imprese non più a pioggia, ma a chi ha avuto perdite effettive a causa della crisi provocata dal virus. I prossimi ristori non andranno a tutti. Una linea che combacia perfettamente con quella dell’Europa e che in tal senso segna una continuità con l’ultima fase del governo Conte. Dopo una lunga stagione di aiuti a tutti, il decreto Ristori 5 messo in cantiere al Tesoro guidato da Roberto Gualtieri era incentrato sul criterio della selettività. Draghi seguirà questa strada. La visione: alcune aziende non ce la faranno, inutile dare soldi ad attività che non hanno futuro. Ancora di più a quelle che erano in crisi già prima della pandemia.

La governance del Recovery al Tesoro, intorno i ministeri satellite. Le sei missioni verranno rimescolate

Sul piatto ci sono quasi 210 miliardi, spalmati sui prossimi sei anni. Draghi riconosce al governo Conte di avere tirato su “una grande mole di lavoro”. In vista non c’è una riscrittura, ma un approfondimento e un completamento. Da fare in tempi rapidi per rispettare la scadenza con l’Europa del 30 aprile. Via la logica dell’elencazione dei progetti. Più cornice, dove cornice indica “dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050″. Prospettiva fortemente europeista, in linea con gli obiettivi che l’Unione europea si è posta in termini di riduzione delle emissioni di CO2.

La governance del piano – cioè chi gestirà i soldi – è affidata al Tesoro, in stretta collaborazione con i ministeri competenti. Il perno è via XX settembre. Non c’è il trasloco della regia a palazzo Chigi. Anche qui un superamento della governance pensata da Conte: la triade con il Tesoro e lo Sviluppo economico, il Ciae accanto, la task force dei tecnici e degli esperti. Struttura più snella, con il Mef che conosce più di tutti i conti da fare. Modello francese, dove il ministro dell’Economia Bruno Le Maire ha in mano il Recovery. Il Parlamento non avrà un ruolo decisionale. “Verrà costantemente informato”, è l’apertura massima di Draghi.

Alcune indicazioni di metodo. I prestiti – la fetta più importante del Recovery – devono tenere in considerazione che esistono anche i conti pubblici. Insomma occhio al deficit, già gonfiato dai 108 miliardi extra che sono serviti per finanziare i decreti anti Covid. Un’altra traccia di modifica è un freno al ruolo dello Stato. Dice Draghi: “Il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione”. Altro punto di rottura rispetto all’impostazione del governo Conte, che aveva puntato molto sul ruolo dello Stato interventista.

Come cambieranno i contenuti del Recovery 

Scendendo nei contenuti, il premier annuncia che le sei missioni resteranno le stesse del piano messo a punto dal vecchio governo. Quindi l’innovazione, la digitalizzazione, la competitività e la cultura; la transizione ecologica; le infrastrutture per la mobilità sostenibile; la formazione e la ricerca; l’equità sociale, di genere, generazionale e territoriale; la salute e la relativa filiera produttiva. Ma – è qui è la novità – le missioni potranno essere “rimodulate e riaccorpate”. La prospettiva è quella di alleggerire il numero dei progetti e di aumentare la trasversalità degli stessi, puntando innanzitutto sull’ambiente.

Draghi vuole obiettivi diversi e più ambiziosi innanzitutto sul green. Cambieranno gli obiettivi sulla produzione di energia da fonti rinnovabili, ma anche sull’inquinamento. A cascata, sempre nell’ottica della trasversalità, l’Alta velocità, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli elettrici, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G. Le modifiche ai contenuti guardano al ministero della Transizione ecologica, guidato da Roberto Cingolani, e a quello per l’Innovazione e la Transizione digitale in capo a Vittorio Colao. I ministeri per il Recovery.

Tre riforme per sostenere il Recovery

Draghi chiama l’Antitrust: subito proposte per fissare le regole del gioco. Se non sono ben definite – è il ragionamento – gli investimenti fanno fatica. Qui il premier fa una critica ai governi degli ultimi anni: “Il problema sta forse nel modo in cui spesso abbiamo disegnato le riforme: con interventi parziali dettati dall’urgenza del momento, senza una visione a tutto campo che richiede tempo e competenza”. Come sul fisco, dove “non è una buona idea cambiare le tasse una alla volta”.

1) La riforma fiscale. No alla flat tax, semplificazione delle aliquote per l’Irpef

Innanzitutto bisogna coinvolgere gli esperti. La critica rimanda a chi nella politica si è avventurato. Gli 80 euro di Matteo Renzi sono un esempio. Ma anche tanti altri interventi spot di altri governi. Per quel che verrà alcune prospettive si possono delineare chiaramente. Niente flat tax: la bandiera dei leghisti non vedrà la luce. Ci sarà invece una “revisione profonda dell’Irpef”. La direzione ipotizzabile è quella di una modifica dell’assetto che oggi poggia su cinque scaglioni e altrettante aliquote. Chi pagherà meno tasse potrebbe essere il ceto medio. Gli interventi possibili, quindi, sul terzo scaglione, quello che oggi ha un’aliquota del 38% per i redditi compresi tra 28.001 e 55.000 euro. Accento di Draghi anche sulla necessità di potenziare l’azione di contrasto all’evasione fiscale.

2) Arretrati da smaltire subito, più tecnologia, assunzioni sprint. La riforma della Pubblica amministrazione

La novità più importante è un piano di smaltimento dell’arretrato che si è accumulato negli uffici a causa della pandemia. Dovranno farlo gli uffici pubblici e i cittadini dovranno conoscerlo. Poi più tecnologia e assunzioni sprint, intervenendo con l’accetta sulle attese di decine di migliaia di candidati. Resta coperto invece l’indirizzo sullo smart working. Oggi lavora da casa circa il 40% dei dipendenti pubblici. E le regole snelle per il lavoro agile sono state prolungate fino al 30 aprile. Bisognerà qui capire come e se si ritornerà verso una metodologia di lavoro pre Covid.

3) La riforma della giustizia civile punta su più personale e sullo smaltimento degli arretrati

Qui Draghi è molto puntuale. Bisognerà “aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione”.

Un welfare rosa ma niente quote, gli investimenti pubblici per mettere in sicurezza il Paese

Più generiche sono le considerazioni sulla parità di genere e sugli investimenti pubblici. Draghi: “L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa, oltre una cronica scarsità di donne in posizioni manageriali di rilievo.
Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi”. La prospettiva è quella di un welfare rosa. Alcune misure che possono conciliare lavoro e famiglia ci sono già: i congedi parentali, gli incentivi che il governo Conte ha dato per le assunzioni, soprattutto al Sud. Altre, come opzione donna, impattano sull’uscita dal mondo del lavoro. Bisognerà capire se Draghi confermerà questa linea, fatta di micro-interventi, o se una delle grandi conseguenze della pandemia (le donne hanno pagato di più il conto in termini di posti di lavoro persi) troverà sponda in un intervento più organico. L’obiettivo “imprescindibile” per il Mezzogiorno, indicato “nell’aumento dell’occupazione, in primis, femminile”, apre a questo secondo scenario. Sugli investimenti pubblici il faro è puntato su quelli per la manutenzione delle opere e per la tutela del territorio. Da focalizzare anche su tecnologie digitali e sull’intelligenza artificiale.

FONTE GIUSEPPE COLOMBO huffingtonpost.it

FOTO GETTY

Fonte
huffingtonpost.it
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