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Scienza

Vi siete mai chiesti perché i cani scodinzolano e perché agli esseri umani piace questo comportamento? I cani domestici sono definiti i “migliori amici dell’uomo”: un terzo di tutte le famiglie del mondo ne possiedono uno e la nostra convivenza è iniziata circa 35 000 anni fa. Molti dei loro comportamenti, tuttavia, rimangono un enigma scientifico. Un team di ricercatori di Torino, Vienna e Nimega, coordinati dal professor Andrea Ravignani della Sapienza ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Biology Letters che riassume i risultati dei lavori finora realizzati su meccanismi, ontogenesi, evoluzione e funzione dello scodinzolio nei cani domestici. L’addomesticamento – quello del cane probabilmente è iniziato durante il Paleolitico superiore – è un processo lungo che porta a una serie di cambiamenti fisiologici, morfologici e comportamentali derivanti da un’interazione ecologica: una specie gestisce attivamente la sopravvivenza e la riproduzione di un’altra, che garantisce risorse e servizi alla prima. Nei cani e in alcuni altri mammiferi, questi cambiamenti possono riguardare la depigmentazione della pelliccia, la riduzione delle dimensioni dello scheletro facciale e dei denti, le dimensioni e le proporzioni generali del corpo, la comparsa di attributi fisici come le orecchie flosce e la coda arricciata, la riduzione dell’aggressività, l’aumento della docilità e la variazione dei livelli ormonali con conseguenti cambiamenti comportamentali, come una ridotta risposta allo stress. Inoltre, studi comparativi tra lupi e cani hanno dimostrato che il processo di addomesticamento ha plasmato la cognizione e la socievolezza dei cani sia nelle interazioni cane-cane sia in quelle cane-uomo. Le diverse ipotesi che hanno cercato di spiegare come si siano verificati questi cambiamenti, sono riconducibili a due processi: le caratteristiche desiderabili nelle specie addomesticate sono principalmente il risultato dell’adattamento a un ambiente dominato dall’uomo, e cioè un sottoprodotto di selezione per altre caratteristiche, oppure essere frutto della selezione genetica operata dall’uomo in modo diretto. In particolare, lo scodinzolio potrebbe essere emerso durante il processo di addomesticamento seguendo due strade: o come sottoprodotto della selezione di altri tratti, come la docilità, o come tratto direttamente selezionato dall’uomo il quale è attratto dai movimenti ripetitivi e ritmici. Nel primo caso, esisterebbe un legame genetico tra la docilità e l’anatomia della coda: le selezioni iniziali per la docilità possono aver determinato alterazioni delle cellule della cresta neurale durante lo sviluppo, con ripercussioni su vari tratti fenotipici, tra cui appunto l’anatomia della coda. Ciò è in linea con i risultati di un esperimento a lungo termine che ha cercato di replicare il processo di addomesticamento dei mammiferi e di seguire i cambiamenti nel comportamento, nella genetica e nello sviluppo. L’esperimento è stato condotto su volpi argentate (Vulpes vulpes) allevate per 40 generazioni e selezionate direttamente per addomesticabilità e docilità. La popolazione di volpi risultante mostrava tratti comportamentali, fisiologici e morfologici simili a quelli osservati nei cani: sebbene il comportamento scodinzolante non sia stato selezionato direttamente, le volpi addomesticate mostravano un comportamento scodinzolante simile a quello dei cani e avevano code più arricciate. Questo avvalorerebbe l’ipotesi che il processo di addomesticamento abbia portato a cambiamenti a livello comportamentale e anatomico che hanno alterato il comportamento scodinzolante dei cani, tanto che questi ultimi scodinzolano più spesso e in più contesti rispetto ai canidi non addomesticati. La seconda ipotesi è invece quella dello “scodinzolio ritmico addomesticato”: il comportamento scodinzolante potrebbe essere stato uno degli obiettivi del processo di addomesticamento, con gli esseri umani che hanno (non) consapevolmente selezionato i cani che scodinzolavano più spesso e, potenzialmente, più ritmicamente. Infatti, prove multidisciplinari dimostrano che gli esseri umani hanno notevoli capacità di percepire e produrre sequenze ritmiche, in particolare schemi isocroni in cui gli eventi sono uniformemente distanziati nel tempo. Non è ancora chiaro come questa caratteristica comportamentale sia comparsa nell’uomo, ma le neuroscienze cognitive dimostrano che il cervello umano preferisce gli stimoli ritmici, che innescano risposte piacevoli e coinvolgono le reti cerebrali che fanno parte del sistema di ricompensa. Questa propensione per i ritmi isocroni potrebbe aver guidato la selezione umana per il vistoso scodinzolio ritmico nei cani e potrebbe spiegare perché i cani lo mostrano così spesso nelle interazioni uomo-cane. Secondo entrambe le ipotesi, la selezione del comportamento scodinzolante potrebbe non essere stata uniforme tra le varie razze; ad esempio, i cani da caccia scodinzolano di più dei cani da pastore, e hanno subito pressioni selettive diverse nel corso dell’addomesticamento. “La combinazione di tecniche di analisi comportamentale, di visione computerizzata e di fisiologia con le neuroscienze, potrà aiutare a distinguere tra i movimenti della coda sotto controllo, quindi sotto possibile selezione, da quelli derivanti da meri effetti meccanici come ad esempio, la punta della coda che si muoverebbe come conseguenza del fatto che più porzioni craniali della coda sono state sottoposte ad un’azione di selezione” spiega Andrea Ravignani, professore ordinario di Psicologia generale “Un’indagine più sistematica e approfondita sullo scodinzolio non solo permetterà di mappare meglio questa iconica manifestazione comportamentale del cane, ma fornirà anche indiretta sull’evoluzione dei tratti umani, come la percezione e la produzione di stimoli ritmici”.

2 ragazze italiane e 1 bambino ucraino in completa remissione: «Benefici rilevanti e sostenuti nel tempo». Il presidente Onesti: «Dalla terapia genica risposte concrete a pazienti senza speranza. Una sfida per i nostri sistemi»

2 ragazze italiane e 1 bambino ucraino di 12 anni, fuggito dalla guerra, sono i primi pazienti pediatrici affetti da gravi patologie autoimmuni ad essere stati trattati con cellule CAR-T capaci di mandare in remissione la loro malattia. Si tratta di un’applicazione innovativa della terapia genica basata sulla manipolazione dei linfociti T del paziente, sperimentata per la prima volta in ambito pediatrico su questo tipo di patologie. I risultati del trattamento, eseguito presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, sono stati presentati recentemente a Padova, nell’ambito dei lavori del Centro Nazionale 3 per lo sviluppo della terapia genica previsto dal PNRR, e ancora a Rotterdam, in occasione dell’ultimo Congresso europeo di Reumatologia pediatrica.

 

LE MALATTIE AUTOIMMUNI 

 

Le malattie autoimmuni sono patologie caratterizzate da un’aggressione del sistema immunitario, che invece di difendere l’organismo da agenti patogeni come batteri e virus, attacca e distrugge i tessuti sani propri di un individuo scambiandoli per estranei e pericolosi. Questo malfunzionamento può causare un processo infiammatorio e la formazione di anticorpi che attaccano erroneamente le cellule sane colpendo potenzialmente qualsiasi parte del corpo, inclusi organi vitali quali il rene e i polmoni, le articolazioni, la pelle, i vasi sanguigni e altri tessuti. I tre pazienti trattati con le cellule CAR T dagli specialisti dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù erano affetti in particolare da forme molto gravi di lupus eritematoso sistemico, una malattia cronica che può attaccare reni, polmoni e sistema nervoso centrale, e dermatomiosite, una rara patologia infiammatoria autoimmune che colpisce la cute ed i muscoli scheletrici.

 

LA TERAPIA CON CELLULE CAR-T 

 

Nella recente letteratura scientifica sono descritti 5 casi di pazienti adulti con Lupus eritematoso trattati con successo grazie alla terapia con cellule CAR-T, più comunemente usata nell’ambito delle malattie neoplastiche, quali leucemie, linfomi e mielomi. Da questo precedente nasce l’idea dei ricercatori del Bambino Gesù di testare la stessa soluzione per la prima volta anche in ambito pediatrico, utilizzando il “costrutto” che aveva funzionato con gli adulti affetti da Lupus, ossia il prodotto di terapia genica messo a punto in questo caso dall’azienda biotecnologica Miltenyi. Di qui la richiesta ad AIFA di uso non ripetitivo (hospital exemption) del trattamento CAR-T per 3 pazienti con forme di malattia autoimmune particolarmente gravi e refrattarie ai trattamenti convenzionali.

 

La terapia con CAR-T prevede la manipolazione in laboratorio dei linfociti T del paziente per renderli capaci di riconoscere, attraverso l’introduzione di una sequenza di DNA che codifica per una proteina chiamata recettore chimerico (CAR, Chimeric Antigen Receptor). Nelle leucemie linfoblastiche acute e nei linfomi non Hodgkin questa proteina riconosce un bersaglio rappresentato dall’antigene CD19, espresso dalle cellule tumorali, che vengono in questo modo riconosciute e attaccate. Lo stesso antigene CD19 è espresso anche dai linfociti B del sistema immunitario, che nel caso del lupus eritematoso e delle dermatomiositi giocano un ruolo cruciale nel determinare la malattia. «Usando lo stesso bersaglio – spiega Franco Locatelli, responsabile dell’area di Oncoematologia e Terapia Cellulare e Genica dell’Ospedale Pediatrico Bambino e professore Ordinario di Pediatria all’Università Cattolica del Sacro Cuore – trasliamo il medesimo approccio di terapia genica da un contesto di malattia neoplastica (leucemie e linfomi) a un contesto di patologia non neoplastica, ma dove gli elementi che producono il danno sono i B-linfociti che esprimono CD19».

 

I RISULTATI DEL TRATTAMENTO 

 

Tutti e tre i pazienti trattati con terapia genica dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù hanno riscontrato benefici rilevanti e sostenuti nel tempo. A distanza di diversi mesi dal trattamento con cellule CAR-T, coerentemente con quanto riscontrato nei pazienti adulti descritti in letteratura, sono in remissione di malattia e non assumono più farmaci immunosoppressori.

 

La prima paziente, una ragazza messinese di 17 anni affetta da lupus, è a quasi 9 mesi ormai dall’infusione di cellule CAR-T. Il secondo paziente, un bambino ucraino di 12 anni affetto da dermatomiosite, è a 7 mesi dal trattamento. Era seguito nella capitale ucraina prima della guerra, poi trasferito in Ungheria, infine in Italia, al Bambino Gesù di Roma, dove ha potuto beneficiare della terapia con CAR-T.  La terza paziente, una ragazza romana di 18 anni anche lei affetta da lupus (patologia molto più frequente nelle femmine rispetto ai maschi), è a circa 2 mesi dal trattamento. Era stata ospedalizzata per 6 mesi di seguito, dipendente da ossigeno, più volte assistita in rianimazione, con effetti collaterali importanti dovuti alle terapie cortisoniche. Oggi è a casa in buone condizioni generali di salute.

 

«Sono dati assolutamente rilevanti» afferma Fabrizio De Benedetti, responsabile dell’area di ricerca di Immunologia, Reumatologia e Malattie infettive. «Tutti e 3 i pazienti avevano risposto in maniera insoddisfacente a terapie immunosoppressive aggressive, necessarie per la gravita della loro malattia, e allo stesso tempo avevano sviluppato importanti effetti collaterali I risultati ottenuti con le cellule CAR-T ci incoraggiano a proseguire nella direzione di un trial clinico che possa comprendere un numero più ampio di pazienti pediatrici affetti da varie malattie autoimmuni in cui un ruolo fondamentale nello sviluppo è giocato dai linfociti B».

 

I risultati del trattamento con cellule CAR-T di questi primi pazienti sono stati presentati a Rotterdam, in occasione dell’ultimo congresso europeo di reumatologia pediatrica, e più recentemente a Padova, nell’ambito dei lavori del Centro Nazionale 3 per lo sviluppo della terapia genica previsto dal PNRR. «La terapia genica – sottolinea il presidente dell’Ospedale Bambino Gesù, Tiziano Onesti – rappresenta una sfida e un’opportunità unica per i sistemi sanitari globali. Ci consente di offrire risposte concrete a pazienti che fino a poco tempo fa erano senza speranza, affrontando malattie genetiche e condizioni cliniche gravi in modo personalizzato e mirato. Inoltre, la terapia genica promette di emancipare i pazienti da condizioni di cronicità, migliorando la loro qualità di vita e riducendo i costi a lungo termine associati alla gestione delle malattie croniche. Questa rivoluzione medica non solo offre speranza e guarigione, dunque, ma anche la possibilità di rafforzare la sostenibilità dei sistemi sanitari, liberando risorse per migliorare la salute generale e promuovere ulteriori scoperte mediche».

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